Tempio Pausania, 20 giu. 2018-
Era l’ultima cosa che mi aspettavo carissimo amico, non era certo vederti dentro una bara ieri, e oggi nell’ultimo viaggio, che stavo aspettando. Era altro che dovevo dirti martedì sera quando mi apprestavo a venire a casa e rasserenarti, come ho cercato di fare da quando Angelo ci ha lasciati. E’ stata dura, Diego, sapere che un’altra tragedia attendeva anche te, siculo sardo di 78 anni, che in queste settimane mi avevi mostrato la solita determinazione e voglia di combattere per la verità sulla morte di tuo figlio. Incredulo, ho pianto insieme ai tanti ricordi che mi hanno legato a te da 45 anni. Ero un ragazzo allora, e tu eri allenatore di calcio, dispotico e autoritario, ma dentro un’anima pugnace e testarda, un cuore generoso ricco di umanità.
Il calcio è stato una parte della tua vita, la passione che avevi da sempre, e che traspariva dalla tua competenza semplice ma energica del pallone. Ci siamo spesso trovati al bar a vedere le partite della Juve in Champion, nel frastuono dei tifosi che di solito accompagna le partite, la tua voce la sentivo a distanza. Eri critico a volte, avresti voluto esserci tu in campo a correre al posto di “certi smidollati”. Il calcio era lotta, velocità, minutaggio sulle gambe, allenamenti duri, apparivi un sergente autoritario agli occhi di noi giovani imberbi calciatori. Liti memorabili quando allenasti la seconda squadra di calcio, il Limbara, con avversari, allenatori e calciatori. In panchina eri un sussulto, un vociare continuo, non ci stavi a perdere, mai. Nello sport e nel lavoro, vincere era la sola cosa che t’importasse. Rarità, doti che uscivano fuori dal tuo modo di essere, messe in luce da quando venisti a Tempio da Aci Castello 52 anni fa. Sognavi di realizzare qualcosa di importante, e ci sei riuscito proprio per la tua caparbietà. Una famiglia straordinaria, una buona posizione sociale, i figli che seguivano l’esempio, una moglie che ha sempre assecondato le tue scelte e i tuoi sogni. Integrati perfettamente, in un gemellaggio spontaneo tra Sardegna e la tua terra, rispettosi e simili in tutto, con gli stessi valori che appartengono a due isole di rara bellezza.
Poi è arrivato il tennis, dove la tecnica è sempre stata scarsa ma la compensavi con la solita tenacia e la grinta, i principi cardine del tuo essere uomo di sport. Un pallettaro, si chiamavano così, quelli come te che se ne stavano a fondo campo a rimettere tutte le palle dall’altra parte sino a che l’avversario non cadeva nella trappola e sbagliava. Ci abbiamo provato a correggerti qualche difetto d’impostazione ma era difficile farti cambiare. “Il tennis cos’è alla fine? Che la palla sia sempre nel campo avversario nell’ultimo colpo e che il punto lo faccia io”. Logica ineccepibile, alla fine.
E’ stato uno strazio sapere come sia finita, amico mio, non così, non in quel modo, dopo Angelo. Destino inspiegabile, assurdo, ingiusto, mentre aspettavo di vederti e parlarti a pochi giorni dal trigesimo di tuo figlio. Come può la vita riservarci queste anomalie devastanti? Razzolare anche le ultime residue briciole di forza per una reazione, sarà dura, per Graziella, Maria Grazia, Rosaria, Menica, per i tuoi nipoti, i fratelli, le sorelle, le tante persone che ho conosciuto in queste settimane di tragedia, nello sconforto per un figlio di 47 anni, accompagnato appena 20 giorni fa.
“Adesso glielo hai scritto un altro articolo – mi ha detto ieri Rosario – per lui però“. Non sono le parole che possono cambiare il destino di noi altri, non hanno poteri miracolosi che risollevano la schiena piegata dai dolori delle morti, al massimo servono a chi le scrive con l’animo sincero e a chi le sa leggere con l’emozione che ne deriva. Ora solo questo posso darti, amico siculo sardo, altro non posso più. Le mie lacrime le ho piante, il mio cuore stavolta ha retto a malapena, come quello di chi stamani era con me e con cui abbiamo condiviso anni di risate e sudore sui campi da tennis e di pallone. Diè, non ce lo aspettavamo, nessuno se lo aspettava.
“Dovevo portargli gli arancini oggi– ha detto un tuo nipote che vive dalle nostre parti – come quelli della Sicilia. Ho trovato un negozio a Porto Cervo che li fa davvero buoni, invece ora sto entrando in chiesa per dirgli addio”. E l’abbraccio stretto stretto di tuo fratello, quello che ho conosciuto alla morte di Angelo, con cui abbiamo persino riso a casa di Maria Grazia mentre ricordavate di una lontanissima infanzia a Aci Castello e delle vostre avventure.
Sono state tante le emozioni, troppi i perché, chi invoca la fatalità, chi il destino, chi cerca conforto nella fede e nelle parole di Don Antonio, sempre puntuali ed efficaci, chi ricorda aneddoti tuoi, chi lo strano vocabolario Siculo-Italo-Gallurese che ci faceva ridere tanto, chi gli strafalcioni simpaticissimi quando storpiavi qualche nome. Unico ed impareggiabile intrattenitore, Diego caro, indimenticabile.
Ho chiesto spesso a me stesso se la vita sia giusta, in questi mesi troppe tragedie mi hanno fatto allontanare da quel che ho sempre pensato, cioè che vada sempre vissuta sino alla fine, giusta o sbagliata che sia. Ieri mattina, dopo aver saputo del trattore che ti ha tolto il respiro, ho capito che non importa quanta ingiustizia ci possa essere nella vita o quanto sia assurdo continuare a viverla dopo una tragedia come questa e mi sono risposto.
La vita è sempre da vivere, è fortunata quando la si trova in attimi vissuti assieme, in passioni comuni, ovunque, quando si vive la bellezza di avere amici come te. E tu, conoscendoti bene, avresti detto la stessa cosa.
Ti voglio bene Diè! Quanto mancherai lo sai già, tra sardi e siculi non occorre dirselo.
Antonio Masoni