Tempio Pausania, 27 dic. 2016-
Il mendicante involontario
Poliambulatorio dell’ASL N.2.
Mi chiama mia sorella:
“ Sei libero stamattina? Non ho la macchina, se l’è portata Gino al lavoro, non l’ho avvertito, colpa mia. Devo andare a fare una visita ortopedica al poliambulatorio, e con questa gamba…” “
Sono in campagna, vestito che sembro uno spaventapasseri, mi manca il cappello di paglia e sono nella parte, comunque certo che ti accompagno Marì, fra mezzora sono sotto casa tua; fatti trovare ponta,” proferii un po’ seccato, visto che ero già in campagna dove vado volentieri. Lì a giugno si sta’ proprio bene, l’orto comincia a dare i suoi frutti e l’aria non è ancora troppo calda. Dopo meno di mezzora sono da mia sorella, è pronta; sale in macchina e partiamo. Arriviamo al poliambulatorio; lei va spedita verso l’androne e da lì scompare. Decido di rimanere in macchina; è proprio il caso visto come sono conciato. L’unica cosa che porto addosso di civile sono gli scuri occhiali Ray-Ban. Rimango un po’ seduto in macchina, annoiato e impaziente anche se sono quasi certo che quell’attesa si protrarrà per molto. Non ho niente da leggere, non ho fatto in tempo neanche ad acquistare il giornale, e se mi muovo da qui, domani lo ritrovo un posteggio così comodo. Decido di aspettare. Dopo un po’ mi stufo, oltretutto ho sete. Scendo dall’auto, la chiudo e mi avvio verso l’ingresso del poliambulatorio. Arrivo alla macchinetta e con gli spiccioli che per fortuna mi ritrovo in tasca prendo una bottiglietta d’acqua. La macchinetta addirittura mi restituisce il resto, non mi dice grazie come la macchinetta in municipio ma preferisco questa che mi ridà il resto. Mi avvio verso la scala esterna, ma fuori nell’ampio ingresso si sta proprio bene, c’è il sole ma anche una piacevole brezza, così decido di fermarmi lì un po’. Svuoto con pochi energici sorsi quasi l’intera bottiglietta, per poi poggiarla sul parapetto dell’ingresso. Appoggiato allo stipite della porta scorrevole giochicchio con il resto appena avuto dalla macchinetta e poi lo conto, poi ancora, per noia, riprendo a far suonare e saltare con la mano a scodella quelle poche monetine; gli occhiali sugli occhi. Dopo qualche attimo una signora mi si avvicina e con aria pietosa, come non ne avevo più visto in giro, tende la mano con le dita chiuse e lascia cadere sul mio pugno aperto due euro.
“Si prenda un panino,” mi dice. Ci rimango secco, sto per dirle: “Ma guardi che io…” ma desisto, sarebbe stato ancora più imbarazzante. Lei intanto mi da già le spalle. Sono rosso come i peperoni del mio orto, ma anche divertito da quella situazione inaspettata e soprattutto grottesca. Mi guardo in giro per vedere se qualcuno di mia conoscenza abbia assistito a quella donazione e conoscendomi, abbia sparso la voce come in ogni paese che si conviene, sulla mia condizione di mendicante, ricamandoci su chissà quale storia. Ma nessuno pare che badi a me. E’ una ASL che abbraccia un vasto territorio quella di cui faccio parte, e oggi il viavai è quasi tutto di gente sconosciuta, meglio così. Sto per andare via e intanarmi in macchina, quando una signora zoppa che si appoggia con fatica a una gruccia elegante, con testa di leone in ottone, si avvicina e mi porge una moneta di due euro. Sono confuso ma anche divertito da quell’ennesimo gesto di generosità fatto a una persona che non ha bisogno, e sopratutto non lo desidera. Ma cosa avrò oggi di così miserabile tanto da ispirare pietà per cui tutti mi lasciano una moneta, mentre quel povero senegalese che cerca di vendere qualche paio di calze è mandato al diavolo da quasi tutti i passanti? Ma forse oltre al vestiario consunto e le scarpe da campagna sporche di terra nera, non dev’essere il massimo la mia postura e l’espressione facciale, se no non si spiega questa pietà che ispiro. Faccio per prendere la bottiglietta d’acqua da sopra il parapetto e mi sento toccare la spalla. E’ una giovane donna che mi dice:
“ Le lascio due euro, ma mi dica, lei è ipovedente o solo povero?” +
Rimasi interdetto per un attimo perché non capii quella domanda di una persona evidentemente cervellotica, e facendo mente locale pensai a come ero vestito e agli occhiali neri da cieco.
“Tutti e due, ma me ne basterebbe solo una delle due disgrazie signorina, comunque grazie, oggi per lei sarà una giornata fortunata, per me lo sta diventando,” risposi sorridendo, ormai nella parte del mendicante profeta.
“Ha ragione, ho fatto una domanda stupida,” disse lei, sorrise e andò via.
Era l’ora di punta e il viavai era notevole. Un ragazzo mi disse passandomi vicino e guardando dentro la mano a scodella che ormai pareva paralizzata in quella posizione:
“Perché non ti sposti all’ospedale fuori, nel grande parcheggio?”
“No, ci sono già stato e mi hanno cacciato,” gli risposi.
“Ma guarda questi stronzi, se permetti ti accompagno io e parlo con la guardia giurata che conosco, tanto sono sicuro che è stato lui a cacciarti.”
“No, no, oggi no per favore, sto per andare via, non mi sento bene.”
Lui mi guardò interrogativo. “Va bene, ciao e auguri.”
Ormai non mi muovo più da lì nello stato di chi crede e non crede, mi guardo, mi tocco, si sono proprio io. Una controllatina intorno per vedere se qualcuno mi ha riconosciuto, ma nessuno bada a me, pare che faccia parte dell’arredamento dell’ingresso da tempo. Possibile che nessuno mia abbia notato? Sento un ticchettio di passi conosciuto, è la ragazza di prima.
“Lo sai che ho vinto duecento euro al gratta e vinci, devo assolutamente darti qualcosa,” mi dice; ci pensa un po.’ “Tieni, venticinque euro perché mi hai portato fortuna,” riprende.
“No, no, per carità, io non ho fatto proprio niente, ci mancherebbe altro, le rispondo.” Allora dopo il mio rifiuto, lei mi infila in tasca dieci euro e andando via mi dice:
“Speriamo di rivederci presto.”
“Si magari mi faccio trovare con la gabbietta e il pappagallo che tira fuori dai cassettini biglietti profetici,” penso. Ci rimango male, non era un grande augurio, che stronza, lei stava pensando al suo interesse, non certo al mio, mi avrebbe rincontrato e magari vinto ancora.
“Ho finito, finalmente,” sento dire da mia sorella appena si apre la porta scorrevole che attraversa.
“Ero un’ora là dentro,” riprende.
“Se fosti rimasta un altro po’ mi sarei guadagnato una giornata di lavoro,” le dico sorridendo e dopo averle raccontato dell’accaduto le faccio vedere i sedici euro che tengo ancora in pugno. Entriamo in macchina ridendo, mentre lei si guarda intorno. Non ho voglia di tornare a casa. Accompagno mia sorella e torno in campagna al fresco, e poi andrò a casa a cambiarmi e alla svelta.
Battista Baltolu